La Corte costituzionale il 9 febbraio 2017 ha fatto conoscere,
tramite il suo sito, le motivazioni che
hanno portato alla sua Sentenza sulla legge elettorale denominata
Italicum. Le motivazioni sono, nella
loro interezza, consultabili a questo link
http://www.cortecostituzionale.it/default.do SENTENZA N. 35 ANNO 2017
Data la lunghezza del documento, che affronta tutte le posizioni
dei vari Tribunali che hanno sollevato l’eccezioni di incostituzionalità e
tutte le posizioni sostenute dall’Avvocatura
dello Stato, qui per facilitare la lettura, sono riportati stralci sulle
decisioni, copiate dallo stesso link. I punti salienti soni riportati in
neretto.
Sul premio al 40% e
soglia al 3%
………….. Preliminarmente, è
da rilevare che questa Corte ha sempre riconosciuto al legislatore un’ampia
discrezionalità nella scelta del sistema elettorale che ritenga più idoneo in
relazione al contesto storico-politico in cui tale sistema è destinato ad
operare, riservandosi una possibilità di intervento limitata ai casi nei quali
la disciplina introdotta risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 1
del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993,
ordinanza n. 260 del 2002). Con specifico riferimento a sistemi elettorali che
innestano un premio di maggioranza su di un riparto di seggi effettuato con
formula proporzionale, la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che,
in assenza della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi cui
condizionare l’attribuzione del premio, il meccanismo premiale è foriero di
un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa
(sentenze n. 1 del 2014, n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008).
Le disposizioni portate ora
all’esame di legittimità costituzionale prevedono, invero, una soglia minima di
voti validi per l’attribuzione del premio, pari al 40 per cento di questi. Si è
pertanto in presenza di un premio “di maggioranza”, che consente di attribuire
la maggioranza assoluta dei seggi in un’assemblea rappresentativa alla lista
che abbia conseguito una determinata maggioranza relativa. Alla luce della
ricordata discrezionalità legislativa in materia, tale soglia non appare in sé
manifestamente irragionevole, poiché volta a bilanciare i principi
costituzionali della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e
dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo
costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del
processo decisionale, dall’altro
A ritenere il
contrario, si dovrebbe argomentare la non compatibilità con i principi
costituzionali di una determinata soglia numerica per l’attribuzione del
premio, fino a considerare – quale condizione per il positivo scrutinio di
ragionevolezza e proporzionalità della disciplina premiale – la sola
attribuzione, non già di un premio “di maggioranza”, ma di un premio “di
governabilità”, condizionato al raggiungimento di una soglia pari almeno al 50 per
cento dei voti e/o dei seggi, e destinato ad aumentare, al fine di assicurare
la formazione di un esecutivo stabile, il numero di seggi di una lista o di una
coalizione che quella soglia abbia già autonomamente raggiunto.
Al cospetto della discrezionalità
spettante in materia al legislatore, sfugge dunque, in linea di principio, al
sindacato di legittimità costituzionale una valutazione sull’entità della
soglia minima in concreto prescelta dal legislatore (attualmente pari al 40 per
cento dei voti validi, e del resto progressivamente innalzata nel corso dei
lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge n. 52 del
2015). Ma resta salvo il controllo di proporzionalità riferito alle ipotesi in
cui la previsione di una soglia irragionevolmente bassa di voti per
l’attribuzione di un premio di maggioranza determini una tale distorsione della
rappresentatività da comportarne un sacrificio sproporzionato, rispetto al
legittimo obbiettivo di garantire la stabilità del governo del Paese e di favorire
il processo decisionale.
L’esito dello scrutinio fin
qui condotto non è inficiato dalla circostanza, messa criticamente in luce dal
giudice a quo, per cui la soglia del 40 per cento è calcolata sui voti validi
espressi, anziché sul complesso degli aventi diritto al voto. Pur non potendosi
in astratto escludere che, in periodi di forte astensione dal voto,
l’attribuzione del premio avvenga a favore di una lista che dispone di
un’esigua rappresentatività reale, condizionare il premio al raggiungimento di
una soglia calcolata sui voti validi espressi ovvero sugli aventi diritto
costituisce oggetto di una delicata scelta politica, demandata alla
discrezionalità del legislatore e non certo soluzione costituzionalmente
obbligata (sentenza n. 173 del 2005).
Del resto, anche nella
sentenza n. 1 del 2014 questa Corte accolse la questione di legittimità
costituzionale in relazione a disposizioni elettorali che non prevedevano
l’attribuzione di un premio condizionato al raggiungimento di una soglia minima
di voti e/o di seggi, senza alcun riferimento agli aventi diritto al voto.
Infine, nemmeno pone in
discussione la conclusione raggiunta l’ulteriore carattere criticamente evocato
dal rimettente al fine di sollecitare l’accoglimento delle questioni sollevate,
cioè la presenza, accanto al premio, di un correttivo alla rappresentatività
(sentenza n. 1 del 2014), costituito dalla soglia di sbarramento del 3 per
cento sui voti validamente espressi su base nazionale, quale condizione per
l’accesso delle liste al riparto dei seggi.
In linea generale, infatti,
anche «[l]a previsione di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la
loro applicazione […] sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del
legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza
politica, e contribuire alla governabilità» (sentenza n. 193 del 2015).
Nel caso di specie, invero,
il giudice a quo dubita degli effetti derivanti dalla contestuale previsione di
un premio di maggioranza e di una soglia di sbarramento, traendo proprio da
tale compresenza la convinzione dell’illegittimità costituzionale del premio.
Tuttavia, in primo luogo, le
previsioni della legge n. 52 del 2015 introducono una soglia di sbarramento non
irragionevolmente elevata, che non determina, di per sé, una sproporzionata
distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo.
Inoltre, non può essere la compresenza di premio e soglia,
nelle specifiche forme ed entità concretamente previste dalla legge elettorale,
a giustificare una pronuncia d’illegittimità costituzionale del premio. Ben
vero che qualsiasi soglia di sbarramento comporta un’artificiale alterazione
della rappresentatività di un organo elettivo, che in astratto potrebbe
aggravare la distorsione pure indotta dal premio. Ma non è manifestamente
irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema
politico-partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali,
ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali
meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di
una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta
contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che
la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente
frammentata, così attenuando, anziché aggravando, i disequilibri indotti dalla
stessa previsione del premio di maggioranza.
E se ci sono due liste con il 40% che succede?
…….7.– Il Tribunale
ordinario di Genova solleva questioni di legittimità costituzionale – per
violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. –
dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, nella parte in
cui prevede che «sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su
base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi
1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4 del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito
dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, poiché tali disposizioni
consentono l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che abbia
ottenuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui due liste superino,
al primo turno, il 40 per cento di essi.
Se è da respingere
l’eccezione d’inammissibilità per carenze motivazionali sollevata
dall’Avvocatura generale dello Stato, risultando chiaro ed argomentato ciò che
il giudice a quo lamenta, la questione non è comunque fondata nel merito.
Il rimettente assume, correttamente, che le disposizioni
censurate debbano essere interpretate nel senso che – nell’ipotesi in cui due
liste superino, al primo turno, il 40 per cento dei voti – il premio di
maggioranza andrebbe comunque assegnato, e attribuito alla lista che ha
ottenuto più voti. Ritiene tuttavia che, in tale ipotesi, la lista risultata
seconda vedrebbe irragionevolmente ridotto il proprio numero di deputati, per
effetto della distorsione derivante dall’attribuzione del premio, con lesione
dei parametri costituzionali evocati.
Sull’esito del voto al primo turno possono essere formulate
varie ipotesi, il cui realizzarsi è più o meno probabile o possibile, a seconda
del concreto atteggiarsi del sistema politico. Ma è comunque nella logica di un
sistema elettorale con premio di maggioranza che alle liste di minoranza, a
prescindere dalla percentuale di voti raggiunta, sia attribuito un numero di
seggi inferiore rispetto a quello che sarebbe loro assegnato nell’ambito di un
sistema proporzionale senza correttivi. Tale logica, ovviamente, vale anche per
la lista che giunge seconda, né rileva la circostanza che anch’essa abbia
ottenuto il 40 per cento dei voti validi, ma un numero totale di voti
inferiore, in assoluto, rispetto alla lista vincente.
Il giudice rimettente
domanda una pronuncia additiva, che dichiari costituzionalmente illegittime le
disposizioni censurate, nella parte in cui non escludono l’assegnazione del
premio nell’ipotesi descritta.
Tale richiesta non ha alcun fondamento, innanzitutto alla
luce della appena affermata (punto 6) non manifesta irragionevolezza delle
previsioni della legge n. 52 del 2015 che disciplinano l’assegnazione del
premio al primo turno.
Inoltre, e infine – anche a prescindere dall’intrinseca
contraddittorietà di un sistema elettorale, quale quello prefigurato dal
rimettente, che stabilisca di non assegnare il premio se al primo turno due
liste superino il 40 per cento dei voti, ovvero se lo scarto di voti tra la
lista vincente e le altre non corrisponda ad una determinata quantità o
percentuale – un’addizione di questo genere non apparterrebbe in radice ai
poteri di questa Corte, spettando, semmai, alla discrezionalità del legislatore.
Ballottaggio
…..Come si è già
ricordato, ben può il legislatore innestare un premio di maggioranza in un
sistema elettorale ispirato al criterio del riparto proporzionale di seggi,
purché tale meccanismo premiale non sia foriero di un’eccessiva
sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa (sentenza n. 1 del
2014).
Il legislatore ha ritenuto
di tener fede alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, sia
prevedendo una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio di
maggioranza, sia disponendo che, qualora nessuna lista raggiunga 340 seggi, si
proceda a un turno di ballottaggio tra le due liste più votate. Se, come sopra
affermato (punto 6), la prima previsione non determina un’irragionevole
compressione della rappresentatività dell’organo elettivo, sono invece le
concrete modalità dell’attribuzione del premio attraverso il turno di
ballottaggio a determinare la lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48,
secondo comma, Cost.
Innanzitutto, nel sistema delineato dalla legge n. 52 del
2015, il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione
rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. In questa prospettiva, al turno di ballottaggio accedono
le sole due liste più votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i
due turni, forme di collegamento o apparentamento fra liste. Inoltre, la
ripartizione percentuale dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di
ballottaggio, resta – per tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche
per quella che partecipa, perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo
turno. Il turno di ballottaggio serve dunque ad individuare la lista vincente,
ossia a consentire ad una lista il raggiungimento di quella soglia minima di
voti che nessuna aveva invece ottenuto al primo turno.
È vero – come osserva
l’Avvocatura generale dello Stato – che la soglia minima si innalza, al secondo
turno, al 50 per cento più uno dei voti, ma non potrebbe che essere così, dal
momento che le liste ammesse al ballottaggio sono solo due. La legge n. 52 del 2015, prevedendo una
competizione risolutiva tra due sole liste, prefigura stringenti condizioni che
rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti
validamente espressi da parte della lista vincente; e poiché, per le caratteristiche
già ricordate, il ballottaggio non è che una prosecuzione del primo turno di
votazione, il premio conseguentemente attribuito resta un premio di
maggioranza, e non diventa un premio di governabilità. Ne consegue che le
disposizioni che disciplinano l’attribuzione di tale premio al ballottaggio
incontrano a loro volta il limite costituito dall’esigenza costituzionale di
non comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea
elettiva e l’eguaglianza del voto.
Il rispetto di tali principi
costituzionali non è tuttavia garantito dalle disposizioni censurate: una lista
può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno,
un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che
raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al
primo turno. Le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di
ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva
individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione
elettorale previgente.
Il legittimo perseguimento
dell’obbiettivo della stabilità di Governo, di sicuro interesse costituzionale,
provoca in tal modo un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali
ricordati. Se è vero che, nella legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio
fra le liste più votate ha il compito di supplire al mancato raggiungimento, al
primo turno, della soglia minima per il conseguimento del premio, al fine di
indicare quale sia la parte politica destinata a sostenere, in prevalenza, il
governo del Paese, tale obbiettivo non può giustificare uno sproporzionato
sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza
del voto, trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso
limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta.
Anche in questo caso,
pertanto, si conclude negativamente lo scrutinio di proporzionalità e
ragionevolezza (art. 3 Cost.), il quale impone di verificare – anche in ambiti,
quale quello in esame, connotati da ampia discrezionalità legislativa – che il
bilanciamento dei principi e degli interessi costituzionalmente rilevanti non
sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la
compressione di uno di essi in misura eccessiva.
Le disposizioni censurate
producono una sproporzionata divaricazione tra la composizione di una delle due
assemblee che compongono la rappresentanza politica nazionale, centro del
sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare
prefigurati dalla Costituzione, da un lato, e la volontà dei cittadini espressa
attraverso il voto, «che costituisce il principale strumento di manifestazione
della sovranità popolare secondo l’art. 1 della Costituzione» (sentenza n. 1
del 2014), dall’altro. È vero che, all’esito del ballottaggio, il premio non è
determinato artificialmente, conseguendo pur sempre ad un voto degli elettori,
ma se il primo turno dimostra che nessuna lista, da sola, è in grado di
conquistare il premio di maggioranza, soltanto le stringenti condizioni di
accesso al turno di ballottaggio conducono, attraverso una radicale riduzione
dell’offerta politica, alla sicura attribuzione di tale premio.
Inoltre, è vero che la
previsione legislativa di un turno di ballottaggio eventuale – basato su una
competizione risolutiva fra due sole liste, finalizzata ad attribuire alla
lista vincente la maggioranza assoluta dei seggi nell’assemblea rappresentativa
– innesta tratti maggioritari nel sistema elettorale delineato dalla legge n.
52 del 2015. Ma tale innesto non cancella la logica prevalente della legge,
fondata su una formula di riparto proporzionale dei seggi, che resta tale
persino per la lista perdente al ballottaggio, la quale mantiene quelli
guadagnati al primo turno. Sicché il perseguimento della finalità di creare una
maggioranza politica governante in seno all’assemblea rappresentativa,
destinata ad assicurare (e non solo a favorire) la stabilità del governo,
avviene a prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente
diseguale, al fine dell’attribuzione finale dei seggi alla Camera, in lesione
dell’art. 48, secondo comma, Cost.
È necessario sottolineare
che non è il turno di ballottaggio fra liste in sé, in astratto considerato, a
risultare costituzionalmente illegittimo, perché in radice incompatibile con i
principi costituzionali evocati. In contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3
e 48, secondo comma, Cost. sono invece le specifiche disposizioni della legge
n. 52 del 2015, per il modo in cui hanno concretamente disciplinato tale turno,
in relazione all’elezione della Camera dei deputati.
Il turno di voto qui scrutinato – con premio assegnato
all’esito di un ballottaggio in un collegio unico nazionale con voto di lista –
non può essere accostato alle esperienze, proprie di altri ordinamenti, ove al
ballottaggio si ricorre, nell’ambito di sistemi elettorali maggioritari, per l’elezione
di singoli rappresentanti in collegi uninominali di ridotte dimensioni. In casi
del genere, trattandosi di eleggere un solo rappresentante, il secondo turno è
funzionale all’obbiettivo di ridurre la pluralità di candidature, fino ad
ottenere la maggioranza per una di esse, ed è dunque finalizzato, oltre che
alla elezione di un solo candidato, anche a garantirne l’ampia
rappresentatività nel singolo collegio.
Appartiene invece ad una
logica diversa – presentandosi quale istanza risolutiva all’interno di una
competizione elettorale selettiva fra le sole due liste risultate più forti,
nell’ambito di un collegio unico nazionale – l’assegnazione di un premio di
maggioranza, innestato su una formula elettorale in prevalenza proporzionale,
finalizzato a completare la composizione dell’assemblea rappresentativa, con
l’obbiettivo di assicurare (e non solo di favorire) la presenza, in
quest’ultima, di una maggioranza politica governante. Se utilizzato in un tale
contesto, che trasforma in radice la logica e lo scopo della competizione
elettorale (gli elettori non votano per eleggere un solo rappresentante di un
collegio elettorale di limitate dimensioni, ma per decidere a quale forza
politica spetti, nell’ambito di un ramo del Parlamento nazionale, sostenere il
governo del Paese), un turno di
ballottaggio a scrutinio di lista non può non essere disciplinato alla luce
della complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di
un regime parlamentare.
Nella forma di governo
parlamentare disegnata dalla Costituzione, la Camera dei deputati è una delle
due sedi della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), accanto al
Senato della Repubblica. In posizione paritaria con quest’ultimo, la Camera
concede la fiducia al Governo ed è titolare delle funzioni di indirizzo
politico (art. 94 Cost.) e legislativa (art. 70 Cost.). L’applicazione di un
sistema con turno di ballottaggio risolutivo, a scrutinio di lista, dovrebbe
necessariamente tenere conto della specifica funzione e posizione costituzionale
di una tale assemblea, organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero
ordinamento, considerando che, in una forma di governo parlamentare, ogni
sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile,
non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore
costituzionale della rappresentatività.
Le stringenti condizioni cui la legge n. 52 del 2015
sottopone l’accesso al ballottaggio non adempiono, si è detto, a tali compiti
essenziali. Ma non potrebbe essere questa Corte a modificare, tramite
interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il
premio viene assegnato all’esito del ballottaggio, inserendo alcuni, o tutti, i
correttivi la cui assenza i giudici rimettenti lamentano. Ciò spetta all’ampia
discrezionalità del legislatore (ad esempio, in relazione alla scelta se
attribuire il premio ad una singola lista oppure ad una coalizione tra liste:
sentenza n. 15 del 2008), al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso
rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Inoltre, alcuni di questi
interventi (che, in astratto considerati, potrebbero rendere il turno di
ballottaggio compatibile con i tratti qualificanti dell’organo rappresentativo
nazionale) non sarebbero comunque nella disponibilità di questa Corte, a causa
della difficoltà tecnica di restituire, all’esito dello scrutinio di
legittimità costituzionale, una disciplina elettorale immediatamente
applicabile, complessivamente idonea a garantire l’immediato rinnovo dell’organo
costituzionale elettivo (da ultimo, sentenza n. 1 del 2014).
Merita, infine, precisare
che l’affermata illegittimità costituzionale delle disposizioni scrutinate non
ha alcuna conseguenza né influenza sulla ben diversa disciplina del secondo turno
prevista nei Comuni di maggiori dimensioni, già positivamente esaminata da
questa Corte (sentenze n. 275 del 2014 e n. 107 del 1996). Tale disciplina
risponde, infatti, ad una logica distinta da quella che ispira la legge n. 52
del 2015. È pur vero che nel sistema elettorale comunale l’elezione di una
carica monocratica, quale è il sindaco, alla quale il ballottaggio è
primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione
dell’organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca
all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall’elezione diretta
del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di
governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale.
Dall’insieme delle considerazioni
svolte deriva la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 (dalle parole «o, in mancanza»
alle parole «tra i due turni di votazione»), dell’ultima parte dell’art. 1,
comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 (ossia delle parole «, ovvero a seguito di
un turno di ballottaggio ai sensi dell’art. 83»), e dell’art. 83, comma 5,
dello stesso d.P.R. n. 361 del 1957.
La normativa che resta in
vigore a seguito della caducazione del citato comma 5 dell’art. 83 del d.P.R.
n. 361 del 1957 è idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo
costituzionale elettivo, così come richiesto dalla costante giurisprudenza
costituzionale (oltre alla già citata sentenza n. 1 del 2014, sentenze n. 13
del 2012, n. 16 e 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995,
n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987). Infatti, qualora, all’esito
del primo turno, la lista con la maggiore cifra elettorale nazionale non abbia
ottenuto almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi, s’intende
che resta fermo il riparto dei seggi – tra le liste che hanno superato le
soglie di sbarramento di cui all’art. 83, comma 1, numero 3), del d.P.R. n. 361
del 1957 – ai sensi del comma 1, numero 4), del medesimo art. 83.
Sulle circoscrizioni elettorali e translazione dei voti
…..Il disposto di cui
all’art. 56, quarto comma, Cost. non può essere infatti inteso nel senso di
richiedere, quale soluzione costituzionalmente obbligata, un’assegnazione di
seggi interamente conchiusa all’interno delle singole circoscrizioni, senza
tener conto dei voti che le liste ottengono a livello nazionale (come, ad
esempio, nel caso di un sistema elettorale interamente fondato su collegi
uninominali a turno unico; oppure di un sistema proporzionale con riparto dei
seggi solo a livello circoscrizionale, senza alcun recupero dei resti a livello
nazionale).
L’art. 56, quarto comma, Cost. non è preordinato a
garantire la rappresentanza dei territori in sé considerati (sentenza n. 271
del 2010), ma, come si è detto, tutela la distinta esigenza di una
distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione delle diverse parti del
territorio nazionale: la Camera resta, infatti, sede della rappresentanza
politica nazionale (art. 67 Cost.), e la ripartizione in circoscrizioni non fa
venir meno l’unità del corpo elettorale nazionale, essendo le singole
circoscrizioni altrettante articolazioni di questo nelle varie parti del
territorio.
Con riferimento al sistema
elettorale introdotto dalla legge n. 52 del 2015, se è costituzionalmente
legittimo che il riparto di seggi avvenga a livello nazionale (eventualità che
del resto il giudice a quo non contesta), l’art.
56, quarto comma, Cost. deve essere quindi osservato fin tanto che ciò sia
ragionevolmente possibile, senza escludere la legittimità di residuali ed
inevitabili ipotesi di traslazione di seggi da una circoscrizione ad un’altra.
In definitiva, il meccanismo
di riparto dei seggi previsto dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n.
361 del 1957, non viola l’art. 56, quarto comma, Cost., poiché la traslazione di un seggio da una circoscrizione ad un’altra
costituisce, nella procedura di assegnazione dei seggi, un’ipotesi residuale,
che può verificarsi, per ragioni matematiche e casuali, solo quando non sia
stato possibile, applicando le disposizioni vigenti, individuare nessuna
circoscrizione in cui siano compresenti una lista eccedentaria ed una
deficitaria con parti decimali dei quozienti non utilizzati.
La questione non è, infine,
fondata nemmeno con riferimento al primo comma dell’art. 56 Cost., che contiene
il principio del voto diretto. Quest’ultimo, esigendo che l’elezione dei
deputati avvenga direttamente ad opera degli elettori, senza intermediazione
alcuna, non viene in considerazione in relazione alle disposizioni censurate.
Capilista bloccati
……Nella sentenza n. 1 del 2014, questa Corte rilevò che il
sistema allora vigente determinava la lesione della libertà del voto garantita
dall’art. 48, secondo comma, Cost., poiché non consentiva all’elettore alcun
margine di scelta dei propri rappresentanti, prevedendo un voto per una lista
composta interamente da candidati bloccati, nell’ambito di circoscrizioni molto
ampie e in presenza di liste con un numero assai elevato di candidati,
potenzialmente corrispondenti all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione,
perciò difficilmente conoscibili dall’elettore. In quel sistema, alla totalità
dei parlamentari, senza alcuna eccezione, mancava il sostegno della indicazione
personale degli elettori, in lesione della logica della rappresentanza prevista
dalla Costituzione. Simili condizioni di voto, che imponevano all’elettore di
una lista di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa
elencati – che non aveva avuto modo né di conoscere né di valutare – perciò
automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare
deputati o senatori, rendevano quella disciplina «non comparabile né con altri
sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con
altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni
territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia
talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa
l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel
caso dei collegi uninominali)».
In sostanza, mentre lede la libertà del voto un sistema
elettorale con liste bloccate e lunghe di candidati, nel quale è in radice
esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso degli
elettori, appartiene al legislatore discrezionalità nella scelta della più
opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione delle
modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il proprio
sostegno ai candidati.
Alla luce di tali premesse,
le disposizioni censurate non determinano una lesione della libertà del voto
dell’elettore, presidiata dall’art. 48, secondo comma, Cost.
Il sistema elettorale
previsto dalla legge n. 52 del 2015 si discosta da quello previgente per tre
aspetti essenziali: le liste sono presentate in cento collegi plurinominali di
dimensioni ridotte, e sono dunque formate da un numero assai inferiore di
candidati; l’unico candidato bloccato è il capolista, il cui nome compare sulla
scheda elettorale (ciò che valorizza la sua preventiva conoscibilità da parte
degli elettori); l’elettore può, infine, esprimere sino a due preferenze, per
candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capilista.
Né è irrilevante, nella
complessiva valutazione di una siffatta disciplina, la circostanza che la
selezione e la presentazione delle candidature (sentenze n. 429 del 1995 e n.
203 del 1975) nonché, come nel caso di specie, l’indicazione di candidati capilista, è anche espressione della
posizione assegnata ai partiti politici dall’art. 49 Cost., considerando,
peraltro, che tale indicazione, tanto più delicata in quanto quei candidati
sono bloccati, deve essere svolta alla luce del ruolo che la Costituzione
assegna ai partiti, quali associazioni che consentono ai cittadini di concorrere
con metodo democratico a determinare, anche attraverso la partecipazione alle
elezioni, la politica nazionale.
Si deve, per di più, osservare che l’effetto del quale il
giudice a quo in prevalenza si duole – le liste di minoranza potrebbero avere
eletti solo tra i capilista bloccati – costituisce una conseguenza (certo
rilevante politicamente) che deriva, di fatto, anche dal modo in cui il sistema
dei partiti è concretamente articolato, e che non può, di per sé, tradursi in
un vizio d’illegittimità costituzionale (sull’irrilevanza dei cosiddetti
inconvenienti di fatto nel giudizio costituzionale, ex multis, sentenze n. 219
e n. 192 del 2016; ordinanze n. 122 e n. 93 del 2016).
Inoltre e infine, come
correttamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato, molte sono le
variabili in grado di determinare quanti candidati sono eletti con o senza
preferenze: oltre al numero dei capilista candidati in più collegi, che possono
liberare seggi da assegnare ad eletti con preferenze, rileva anche la
diffusione, sul territorio nazionale, del consenso che ciascuna lista ottiene.
L’effetto temuto presuppone che tale consenso sia omogeneamente diffuso per
tutte le liste di minoranza. Laddove esso sia invece concentrato soprattutto in
determinati collegi, una lista potrà conseguire, in questi, più di un seggio,
eleggendo così, oltre al capolista, uno o più candidati con preferenze.
Candidature plurime in più collegi
…..L’assenza nella
disposizione censurata di un criterio oggettivo, rispettoso della volontà degli
elettori e idoneo a determinare la scelta del capolista eletto in più collegi,
è in contraddizione manifesta con la logica dell’indicazione personale
dell’eletto da parte dell’elettore, che pure la legge n. 52 del 2015 ha in
parte accolto, permettendo l’espressione del voto di preferenza. L’opzione arbitraria consente al capolista
bloccato eletto in più collegi di essere titolare non solo del potere di
prescegliere il collegio d’elezione, ma altresì, indirettamente, anche di un
improprio potere di designazione del rappresentante di un dato collegio elettorale,
secondo una logica idonea, in ultima analisi, a condizionare l’effetto utile
dei voti di preferenza espressi dagli elettori.
Obietta l’Avvocatura
generale dello Stato che, nel sistema elettorale proporzionale antecedente al
1993, ai candidati eletti in più collegi era costantemente attribuita una
libera facoltà di scelta del collegio d’elezione. Ricorda, inoltre, la sentenza
n. 104 del 2006 di questa Corte, in cui si è affermato che «[i]l diritto di
optare per una delle circoscrizioni nelle quali il candidato è risultato eletto
costituisce il modo per consentirgli di instaurare uno specifico legame, in
termini di rappresentanza politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad
un determinato collegio ed è esplicazione del diritto di elettorato passivo,
garantito a tutti i cittadini dall’art. 51, primo comma, Cost.».
A tali osservazioni è
agevole replicare che nel sistema elettorale antecedente al 1993, come pure nel
sistema per l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo, cui
specificamente si riferisce la sentenza invocata, il voto di preferenza poteva
essere accordato a qualunque candidato, il quale, se eletto in più
circoscrizioni, ragionevolmente poteva scegliere a discrezione quella in cui
essere proclamato. Inoltre, l’accesso alle multicandidature non era riservato
ai capilista, ma anche agli altri candidati.
Ben diverso è il sistema introdotto dalla legge n. 52 del
2015: in questo, solo i capilista sono bloccati e possono candidarsi in più
collegi, e sono costoro a determinare poi, con la loro opzione, l’elezione – o
la mancata elezione – di candidati che hanno invece ottenuto voti di
preferenza.
Da questo punto di vista, non errano i giudici a quibus
laddove lamentano che l’opzione arbitraria affida irragionevolmente alla
decisione del capolista il destino del voto di preferenza espresso
dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una distorsione del suo
esito in uscita, in violazione non solo del principio dell’uguaglianza ma anche
della personalità del voto, tutelati dagli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost. Né la garanzia di alcun altro interesse di rango
costituzionale potrebbe bilanciare tale lesione, poiché la libera scelta
dell’ambito territoriale in cui essere eletto – al fine di instaurare uno
specifico legame, in termini di responsabilità politica, con il corpo degli
elettori appartenenti ad un determinato collegio – potrebbe semmai essere
invocata da un capolista che in quel collegio abbia guadagnato l’elezione con
le preferenze, ma non certo, ed in ipotesi a danno di candidati che le
preferenze hanno ottenuto, da un capolista bloccato.
Accertata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato
dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015) nella parte in cui consente
l’opzione arbitraria, questa Corte deve riconoscere – nella rigorosa osservanza
dei limiti dei propri poteri, tanto più in materia elettorale, connotata da
ampia discrezionalità legislativa (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n.
271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993; ordinanza n. 260 del 2002) –
che più d’uno sono, in realtà, i possibili criteri alternativi, coerenti con la
disciplina della legge n. 52 del 2015 in tema di candidature e voto di
preferenza.
Infatti, e solo in via
meramente esemplificativa, secondo una logica volta a premiare il voto di
preferenza espresso dagli elettori, potrebbe stabilirsi che il capolista
candidato in più collegi debba esser proclamato eletto nel collegio in cui il
candidato della medesima lista – il quale sarebbe eletto in luogo del capolista
– abbia riportato, in percentuale, meno voti di preferenza rispetto a quelli
ottenuti dai candidati in altri collegi con lo stesso capolista. Ancora, secondo una logica assai diversa,
tesa a valorizzare il rilievo e la visibilità della sua candidatura, potrebbe
invece prevedersi che il capolista candidato in più collegi debba essere
proclamato eletto in quello dove la rispettiva lista ha ottenuto, sempre in
percentuale, la maggiore cifra elettorale, in relazione agli altri collegi in
cui lo stesso si era presentato quale capolista.
La scelta tra questi ed
altri possibili criteri, e tra i vantaggi e i difetti che ciascuno di essi
presenta, appartiene alla ponderata valutazione del legislatore, e non può
essere compiuta dal giudice costituzionale.
Da tale considerazione,
però, non consegue la rinuncia al dovere, che questa Corte ha, di dichiarare
costituzionalmente illegittima una disposizione che tale risulti, nella parte
che i giudici a quibus effettivamente censurano.
Infatti, all’esito della
caducazione dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede
che il deputato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla
Presidenza della Camera dei deputati quale collegio nominale prescelga,
permane, nella stessa disposizione, quale criterio residuale, quello del
sorteggio.
Tale criterio è già previsto
dalla porzione di disposizione non coinvolta dall’accoglimento della questione,
e non è dunque introdotto ex novo, in funzione sostitutiva dell’opzione
arbitraria caducata: è in realtà ciò che rimane, allo stato, dell’originaria volontà
del legislatore espressa nella medesima disposizione coinvolta dalla pronuncia
di illegittimità costituzionale.
Il permanere del criterio del sorteggio restituisce
pertanto, com’è indispensabile, una normativa elettorale di risulta anche per
questa parte immediatamente applicabile all’esito della pronuncia, idonea a
garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo (da
ultimo, sentenze n. 1 del 2014, n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008).
Ma appartiene con evidenza alla responsabilità del
legislatore sostituire tale criterio con altra più adeguata regola, rispettosa
della volontà degli elettori.
Liste Trentino Alto Adige
……13.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva questioni
di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e
48, secondo comma, Cost., dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957,
come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015.
Il giudice a quo parrebbe
lamentare che il meccanismo di attribuzione dei seggi, nella Regione autonoma
Trentino-Alto Adige, determini una violazione della rappresentatività delle
minoranze politiche nazionali, nel caso in cui queste non siano collegate con
una lista vincitrice di seggi in tale Regione a statuto speciale. Poiché i
seggi assegnati nella Regione Trentino-Alto Adige concorrono a determinare il
numero dei seggi attribuiti, a livello nazionale, sia alla lista che consegue
il premio di maggioranza sia alle liste di minoranza; e poiché, in particolare,
il numero effettivo dei seggi da distribuire tra le liste di minoranza è
variabile, dipendendo da quanti seggi siano già assegnati a tali liste, purché
collegate con candidati nei collegi uninominali in tale Regione, il rimettente
sembra assumere che le liste di minoranza non collegate risulterebbero penalizzate,
concorrendo all’assegnazione di un numero inferiore di seggi.
13.1.– L’Avvocatura generale
dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione per plurime ragioni.
Sussisterebbe innanzitutto
un difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, essendo l’ordinanza
di rimessione assistita, per questa parte, da argomentazioni sintetiche e il
giudice a quo sarebbe inoltre incorso in un’aberratio ictus, avendo sottoposto
a censura la sola disposizione che prevede l’assegnazione dei seggi, in ragione
proporzionale, alle liste che a livello nazionale non conseguono il premio –
ossia l’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art.
2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 – e non, invece, le disposizioni che
determinano realmente l’effetto in tesi lamentato, ossia gli artt. 92-bis,
92-ter e 92-quater (in particolare, il suo comma 7), del medesimo d.P.R. n. 361
del 1957, i quali regolano l’assegnazione dei seggi in Trentino-Alto Adige, e
che sono stati introdotti dall’art. 2, commi 29, 30, 31 e 32, della legge n. 52
del 2015
Tali eccezioni sono fondate
e la questione è pertanto inammissibile.
In primo luogo, le
disposizioni produttive dell’effetto lamentato non sono quelle censurate dal
giudice a quo, ma quelle diverse che correttamente la difesa statale
identifica. È del resto lo stesso rimettente, riferendo la doglianza delle
parti del giudizio principale, a ricordare espressamente che queste avevano
eccepito anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 29, 30, 31 e
32, della legge n. 52 del 2015, cioè proprio delle disposizioni che avrebbe
dovuto sottoporre a scrutinio di legittimità costituzionale. Ma di tali
disposizioni non è riportato, nell’ordinanza di rimessione, nemmeno il
contenuto e, soprattutto, il dispositivo della stessa censura, infine, il solo
art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957.
In secondo luogo, la
prospettazione del rimettente, che non si dà peraltro carico di illustrare il
meccanismo elettorale della cui legittimità costituzionale dubita, appare
talmente sintetica da rendere oscura la complessiva censura sollevata (sentenze
n. 102 del 2016, n. 247 del 2015; ordinanze n. 227, n. 118, n. 47 e n. 32 del
2016). Non è chiarito a quali «minoranze nazionali» il rimettente intenda
riferirsi, ed è solo presumibile che l’ordinanza alluda (non già a minoranze
linguistiche non protette ma) alle liste di minoranza a livello nazionale, cioè
a minoranze politiche. Ancora, non sono esaurientemente descritte le ragioni
per cui tali liste di minoranza risulterebbero discriminate nell’assegnazione
dei seggi, tutte avendo, in linea teorica, la possibilità di apparentarsi con i
candidati nei collegi uninominali della Regione Trentino-Alto Adige. Non è
spiegato per quali ragioni il meccanismo elettorale genericamente lamentato
costituisca «uno degli ulteriori effetti indiretti del doppio turno», dal
momento che, secondo la legge n. 52 del 2015, una ripartizione proporzionale
dei seggi alle liste di minoranza avviene ovviamente anche quando il premio è
assegnato al primo turno. Infine, non si comprende perché il rimettente lamenti
le conseguenze negative derivanti dall’attribuzione di soli tre seggi in
ragione proporzionale, quando l’effetto che presumibilmente sospetta
d’illegittimità costituzionale deriverebbe, piuttosto, dal sistema di
distribuzione dei complessivi undici seggi assegnati a tale Regione a statuto
speciale (otto con sistema maggioritario e tre con riparto proporzionale).
Legge elettorale alla Camera e quella al Senato
…..15.– Il Tribunale
ordinario di Messina solleva, infine, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, in virtù del quale le
disposizioni contenute nel medesimo art. 2, cioè quelle che apportano modifiche
al d.P.R. n. 361 del 1957, ridisegnando il sistema per l’elezione della Camera
dei deputati, si applicano a decorrere dal 1° luglio 2016.
Il giudice a quo ritiene che
tale previsione violi gli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e
56, primo comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione
elettorale del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma
costituzionale di questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di
palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze».
Il rimettente ha sollevato
la questione in epoca antecedente (17 febbraio 2016) all’approvazione in sede
parlamentare (avvenuta in data 12 aprile 2016) del disegno di legge di
revisione costituzionale finalizzato, tra l’altro, alla trasformazione del
Senato della Repubblica e al superamento dell’assetto bicamerale paritario.
Alla data dell’ordinanza di rimessione, la nuova legge elettorale per la Camera
dei deputati era già entrata in vigore. Il legislatore, ipotizzando una rapida
conclusione del procedimento di revisione costituzionale, e al fine di evitare
la compresenza di due sistemi elettorali diversi, aveva disposto che tale legge
fosse applicabile a decorrere dal 1° luglio 2016.
Il giudice a quo, con
prospettazione peraltro molto sintetica, censura proprio la scelta legislativa
di differire l’efficacia delle nuove disposizioni al 1° luglio 2016, anziché
all’effettiva conclusione del procedimento di revisione costituzionale. Tale
scelta è ritenuta lesiva dei parametri costituzionali ricordati, poiché
consentirebbe, da quella data, che i due rami del Parlamento siano rinnovati
con due sistemi elettorali differenti, sul presupposto che questa difformità
possa produrre maggioranze parlamentari non coincidenti.
15.1.– La questione è
inammissibile.
Il rimettente si limita a
sottoporre a generica ed assertiva critica la diversità tra i due sistemi
elettorali, senza indicare quali caratteri differenziati di tali due sistemi
determinerebbero «una situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza
di due diverse maggioranze».
La mera affermazione di disomogeneità è insufficiente a
consentire l’accesso della censura sollevata allo scrutinio di merito e alla
identificazione di un petitum accoglibile.
In secondo luogo, i
parametri costituzionali la cui lesione è lamentata (ossia gli artt. 1, 3, 48,
primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost.) sono evocati solo
numericamente, senza una distinta motivazione delle ragioni per le quali
ciascuno sarebbe violato. Vale anche in tal caso il richiamo alla
giurisprudenza costituzionale (citata supra, punto 14) che sottolinea come non
sia sufficiente l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la
compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma sia
necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e illustrare i passaggi
interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di
normazione.
Peraltro, non è nemmeno
lamentata dal rimettente la lesione delle due disposizioni costituzionali che
dovrebbero necessariamente venire in considerazione (cioè gli artt. 94, primo
comma, e 70 Cost.) laddove si intenda sostenere che due leggi elettorali
«diverse» compromettano, sia il funzionamento della forma di governo
parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo
deve avere la fiducia delle due Camere, sia l’esercizio della funzione
legislativa, attribuita collettivamente a tali due Camere.
15.2.– Fermo restando quanto appena affermato, questa Corte
non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost.
del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità
di posizione e funzioni delle due Camere elettive.
In tale contesto, la Costituzione, se non impone al
legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali
identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto
funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se
differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di
maggioranze parlamentari omogenee.
http://www.cortecostituzionale.it/default.do SENTENZA N. 35 ANNO 2017
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