Qui di seguito
alcuni materiali storici e giuridici in materia elettorale – Costituzione e voto come diritto e dovere
civico – Il contrasto tra astensionismo in materia di referendum e in materia
di elezioni politiche - Il vecchio sistema sanzionatorio e la sua
abrogazione - Il fenomeno dell’astensionismo dopo il 1993.
Va ricordato come l’esigenza del quorum per i
referendum valga solo per quelli abrogativi (abrogazione, totale o parziale, di
una legge o di un atto avente valore di legge), non per quelli costituzionali.
Le polemiche riguardanti gli inviti a recarsi al mare anziché votare, sono
datate (Bettino Craxi in occasione del referendum del 9 e 10 giugno 1991 per
ridurre le preferenze alla Camera da 3 a 1) e si sono riascoltate più volte. Da
alcune parti, l’astensionismo è stato addirittura paventato come un
crimine. La Costituzione, all’articolo 48, definisce il voto come
personale, eguale, libero, segreto e lo considera “dovere civico”. La materia è
disciplinata anche dal Dpr n. 223 del 20 marzo 1967 (Approvazione del testo
unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la
revisione delle liste elettorali). In fase costituente, si pensò di
aggiungere, nell’articolo 48, la postilla “e morale”, con l’intenzione di far
venire i complessi di colpa, a livello etico, agli aspiranti astensionisti.
L’idea non passò. Trattandosi di “dovere civico” (diritto di voto) non è,
dunque, assoggettato ad alcuna sanzione.
Purtroppo, nel
tempo, si sono tramandate delle vere e proprie leggende; una era quella di
incappare in una sanzione nel caso non si partecipasse al voto. La credenza più
gettonata si fondava sul fatto che la rinuncia a votare avrebbe causato la
perdita del diritto stesso, per sempre. In questo caso, circolavano voci
incontrollate su quante fossero le occasioni oltre le quali sarebbero scattate
le pene (3, 5 o 10 assenze), un po’ sull’esempio calcistico delle
ammonizioni/diffide/ espulsioni. Si scatenava l’allarmismo anche sulle
elezioni vere e proprie ammonendo che, partecipando in meno della metà degli
aventi diritto, esse sarebbero state invalidate. Il tutto senza sapere, invece,
che la problematica del quorum è relativa solo ai referendum. Esisteva una
pubblica gogna per chi non votava e veniva elaborata una sorta di lista di
proscrizione?
L’allarmismo,
tuttavia, non era ingiustificato e le leggende spesso, non nascono per caso ma
hanno un fondamento. In effetti, la paura di incorrere in qualche tangibile
sanzione era reale e codificata. Non si trattava di antichi e autoritari
decreti, tipici di monarchie, regimi o qualcosa di simile, bensì di norme della
Repubblica nata con il “battesimo” dell’alleato, altrettanto democratico,
statunitense. Il riferimento, infatti, è a un Dpr non molto antico,
successivo al testo costituzionale, per la precisione il Dpr n. 361 del 30
marzo 1957 (approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per
l’elezione della Camera dei deputati). Vale la pena riportare, per intero, il
dettato dell’articolo 115, da leggere attentamente poiché davvero inquietante,
tanto da lasciare sorpresi e interdetti.
“L’elettore,
che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al
Sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto, entro quindici giorni
dalla scadenza del termine previsto dal terz’ultimo comma dell’art. 75 per il
deposito dell’estratto delle liste elettorali delle sezioni. Il Sindaco,
valutati i motivi che abbiano impedito l’esercizio del voto, procede alla
compilazione dell’elenco degli astenuti, agli effetti del primo comma dell’art.
4, escludendone in ogni caso:
1) i ministri
di qualsiasi culto;
2) i candidati
in una circoscrizione diversa da quella nella quale sono iscritti come
elettori;
3) coloro che
dimostrino di essersi trovati, per tutta la durata delle operazioni di
votazione, in una località distante più di trenta chilometri dal luogo di
votazione, in conseguenza: a) del trasferimento della residenza dopo la
compilazione o la revisione delle liste elettorali del Comune in cui sono
iscritti; b) di obblighi di servizio civile o militare; c) di necessità
inerenti alla propria professione, arte o mestiere; d) di altri gravi motivi;
4) coloro che
siano stati impediti dall’esercitare il diritto di voto da malattia o da altra
causa di forza maggiore.
L’elenco di
coloro che si astengono dal voto nelle elezioni per la Camera dei deputati,
senza giustificato motivo, è esposto per la durata di un mese nell’albo
comunale. Il Sindaco notifica per iscritto agli elettori che si sono
astenuti dal voto l’avvenuta inclusione nell’elenco di cui al comma precedente
entro dieci giorni dalla affissione di esso nell’albo comunale. Contro
l’inclusione nell’elenco degli astenuti gli interessati possono ricorrere,
entro quindici giorni dalla scadenza del termine di pubblicazione, al Prefetto
che decide con proprio decreto. Il provvedimento del Prefetto ha carattere
definitivo. Per il periodo di cinque anni la menzione «non ha votato» è
iscritta nei certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si è
astenuto dal voto senza giustificato motivo”.
Non nutriva un
timore ingiustificato, dunque, il padre che raccomandava al figlio ribelle di
recarsi a votare perché avrebbe avuto problemi, in seguito, a trovar lavoro;
essendo non in regola con i propri diritti politici (in particolare in materia
di “elettorato attivo”). Un’altra leggenda elettorale distingueva secondo
il tipo di chiamata alle urne: la mancata presenza avrebbe avuto risvolti solo
in occasione delle politiche, amministrative ed europee ma non avrebbe riguardato
i referendum (considerati come una consultazione di serie b). Altri timori
sorgono in chiave futura: assodato che, al momento, non ci siano sanzioni di
alcun tipo in caso di astensione, nulla toglie che possa esser varata una legge
che penalizzi in maniera retroattiva.
In ogni caso,
nonostante queste preoccupazioni, mai sufficientemente spiegate dai media
affinché si elimini qualsiasi dubbio e si ponga chiarezza, l’astensione è in
costante crescita. Il suddetto testo del 1957 non è stato abrogato in poco
tempo, ci sono voluti ben 36 anni affinché, nel 1993, con l’articolo 3 del
D.Lgs del 20 dicembre n. 534, si ponesse fine a tale minaccia insensata.
L’articolo 3, infatti, abroga, espressamente, il numero 115 del Dpr
361/57. Fu la fine di una di quelle macchie di cui la nostra tanto
decantata democrazia è caduta in pieno; gravi pecche che, in più, si è cercato
di coprire, di nascondere e, soprattutto, di non ricordare. Ne sono complici e
conniventi tutti i media allineati che hanno assecondato l’oblio di queste
scomode cadute e che hanno rivolto, invece, l’accento su altre problematiche,
risibili o di facciata. I gravissimi dissesti operati da Tangentopoli e la
conseguente perdita d’immagine della politica, hanno creato una disaffezione
enorme, al punto tale che neanche una norma costrittiva (come il Dpr 361/57)
poteva tenere più a bada l’ira e la delusione popolare.
Le tangenti
scoperte (più secretate nel periodo 1957-1992 e assicurate da una normativa
pesante per gli aspiranti all’astensione), hanno indotto a una partecipazione
ridotta, seppur forzata fino all’abrogazione avvenuta nel 1993; da allora si
assiste a un declino inarrestabile tenuto a freno soltanto dall’immarcescibile
“voto di scambio”. Ciò permette al numero degli astenuti di essere il primo
partito effettivo nelle elezioni vere e proprie e, in caso di referendum, di
non raggiungere il quorum necessario. All’astensione vera e propria, di
non recarsi fisicamente al seggio, va aggiunta quella dell’urna: delle schede
bianche o nulle, che non sono poche. Tanto per fare un esempio, alle ultime
elezioni europee del 25 maggio 2014, si è verificata un’affluenza del 57,22%
(su un totale di 50.662.460 elettori, hanno votato 28.991.258). I voti
validi, però, sono stati 27.448.906, la percentuale di affluenza, infatti, non
conta le schede nulle e bianche che sono state ben 1.542.352 (il 5,33% dei
votanti effettivi)! Contando i voti davvero validi, si può parlare di un 54,18%
effettivo.
Una
valutazione analoga si può effettuare a livello di referendum, per avere la
misura precisa dell’astensione. L’incidenza delle schede non valide, tuttavia,
in questo caso ha meno incidenza poiché la scrematura si effettua a priori e
chi si reca alle urne lo fa per profonda convinzione. Ponendo, comunque,
l’attenzione sul referendum del 17 aprile scorso, si può notare come, a fronte
di un elettorato pari a 50.675.406 individui, solo 15.806.788 si siano recati
alle urne, per una percentuale pari al 31,19%. Le schede nulle e bianche sono
state 272.558 (rispettivamente 168.135 e 104.423); a queste vanno aggiunte le
schede contestate e non assegnate (663) per un totale di 273.221 (pari al 2,32%
dei votanti), per cui gli effettivi voti validi sono stati 15.533.567, pari al
30,65%.
Quando si
parla di astensione, quindi, occorre essere precisi e valutare anche il peso
delle schede nulle e di quelle bianche, tema poco digeribile dai media che
devono gonfiare il dato elettorale e dimenticano, accidentalmente, questi
numeri molto interessanti (ed elevati, soprattutto in caso di elezioni politiche,
amministrative ed europee).
Il mercato del
lavoro è già fermo è arduo per tutti, sarebbe quantomeno stolto aggiungere
delle colpe e dei limiti a chi non ha espresso il proprio voto.
Rimane, in
definitiva, il diritto per ogni elettore di scegliere se recarsi alle urne e se
esprimere un voto valido, senza costrizioni, liste di proscrizione, sensi di
colpa e senza la “Spada di Damocle” di ricevere una sanzione.
D.Lgs del 20 dicembre n. 534
……………..
E' legittimo astenersi e invitare a
disertare le urne?
di Andrea Morrone . Articolo pubblicato su il Riformista lunedì
23 maggio 2005 - Professore straordinario di diritto costituzionale nella
Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna.
da
Perché
è importante discutere ancora di astensione? Perché l'appello all'astensione
dal voto rappresenta la scorciatoia per affossare una richiesta di referendum
popolare. Utilizzando l'astensionismo fisiologico (non vota normalmente il 25-
30%), è oggi sufficiente convincere a non votare una minoranza di cittadini
(pari al 20-25% circa dell'elettorato) per boicottare qualsiasi referendum. Di
fronte all'astensione, in altri termini, qualsiasi richiesta di referendum
abrogativo nasce morta. Basta guardare alla storia repubblicana. Un po' di
storia. Nonostante le polemiche dell'ultima ora, la propaganda a favore della diserzione
dalle urne e l'assenteismo dal voto hanno affiancato la storia dei referendum
abrogativi fin dalle origini. La prima volta risale al 1972, quando Pietro
Scoppola e altri intellettuali cattolici proposero agli elettori di ricorrere
all'astensione come alternativa democratica per respingere il referendum sul
divorzio, ritenuto un'iniziativa "inequivocabilmente confessionale".
Questa via d'uscita venne poi suggerita da Marco Pannella, il leader
referendario per eccellenza, a Bettino Craxi il 9 aprile 1985 per scongiurare
il referendum comunista sulla scala mobile: l'invito a disertare le urne,
accolto inizialmente da Pierre Carniti e dallo stesso Craxi, fu poi abbandonato
da quest'ultimo (lo convinsero De Mita, Spadolini, Zanone e Longo), dato che il
Presidente del consiglio decise di trasformare il referendum in un voto di
fiducia sulla politica del governo (poco prima del voto, non tutti lo
ricordano, anche Pannella e i radicali decisero di recarsi alle urne per votare
NO). E', però, con i referendum su caccia e pesticidi del 1990 che l'invito a
disertare le urne (in taluni seggi trasformato in vere e proprie pressioni
fisiche) raggiunse per la prima volta il segno. A invalidare la consultazione
popolare si ritrovano insolitamente uniti agricoltori, cacciatori, produttori
di pesticidi, fabbricanti di doppiette. Una sola volta l'appello all'astensione
è stato sconfitto. Chi non ricorda l'invito ad andare al mare fatto da Craxi e
più apertamente da Bossi in occasione del quesito sulla preferenza unica del
1991. Il 9 giugno 1991 gli italiani andarono a votare, nonostante il fuoco
incrociato contro il referendum elettorale ("incostituzionale" lo
definì Giuliano Amato, inutilmente "costoso" lo ritenne il Presidente
del consiglio Andreotti, mentre il Presidente della Repubblica Cossiga, per
sostenerne la legittimità, attribuì all'astensione il valore di un "NO
rafforzato", anche se poi si recò a votare, ma solo all'ultimo momento):
29 milioni furono i votanti, e 27 milioni i voti favorevoli alla preferenza unica.
Quella importante vittoria democratica spianò così la strada ai referendum
elettorali del 1993 e, dopo il varo delle nuove leggi elettorali maggioritarie,
ai primi governi dell'alternanza. Dopo quell'unico precedente sotto la spada di
Damocle dell'astensione caddero, senza soluzione di continuità, tutti i
referendum successivi: i sette quesiti del 1997 su golden share, obiezione di
coscienza, caccia, carriera dei magistrati, incarichi extragiudiziari, ordine
dei giornalisti, ministero per le politiche agricole (votò il 30.2%), il
referendum per il maggioritario del 1999 (49,6%), i sette referendum del 2000
su sistema elettorale maggioritario, finanziamento pubblico della politica,
elezione del CSM, separazione delle carriere dei magistrati, incarichi extragiudiziari,
trattenute sindacali, liberalizzazione dei licenziamenti (32,2%), i tre quesiti
del 2003, due sull'art. 18 dello statuto dei lavoratori e uno sulla servitù di
elettrodotto (25,7%). In tutti i casi l'invito a disertare le urne è stato
sostenuto, sia pure in maniera differenziata nelle varie circostanze,
praticamente da quasi tutti i principali protagonisti della politica italiana
(tra cui alcuni di coloro che adesso sostengono di voler votare...). Anche
oggi, del resto, la propaganda astensionistica minaccia la validità dei quattro
quesiti sulla procreazione medicalmente assistita. La domanda è sempre la
stessa però: è legittimo invitare a disertare le urne? E' legittimo astenersi
dal voto? Sulla questione sono intervenuti, come sempre, voci diverse:
politici, sacerdoti, cittadini comuni, giuristi. Un vivace dibattito è in corso
tra i costituzionalisti. Michele Ainis ha ritenuto l'astensione "una frode
della Costituzione" (La stampa 12/5/05); Antonio Baldassarre ha invitato a
leggere la Costituzione quando parla di libertà di espressione e di libertà di
voto per ritenere pienamente legittima sia la propaganda per la diserzione
delle urne sia l'assenteismo elettorale (La stampa 14/5/05); Gaetano Silvestri,
pur ritenendo lecito astenersi, ha posto l'attenzione sulla correttezza
democratica di un simile comportamento (il manifesto 15/5/05); Paolo Armaroli
ha parlato dell'astensione come di un espediente lecito utilizzabile in chiave
ostruzionistica (il Giornale 18/5/05); Stefano Ceccanti ha ritenuto una
indebita intrusione nelle questioni temporali l'appello a non votare fatto dal
cardinale Ruini (il Riformista 5/4/05). E' importante che su questo tema
intervengano anche i giuristi. Ma a patto di non ridurre una questione così
complessa a facili semplificazioni. Da un punto di vista costituzionale la
legittimità dell'invito a astenersi e dell'astensione deve essere valutata alla
stregua di tre profili: con il diritto di voto (art. 48 Cost.), con la
disciplina del referendum abrogativo (art. 75 e legge n. 352 del 1970), con la
libertà di opinione e la disciplina della propaganda elettorale (art. 21
Cost.). Astensione e diritto-dovere di votare. L'art. 48 della Costituzione
stabilisce che il voto è libero e che il suo esercizio è un "dovere civico".
Secondo alcuni questa norma vale solo per le elezioni e non per i referendum,
in ragione di una pretesa superiorità della democrazia rappresentativa sulla
democrazia diretta, sicché sarebbe legittimo "non votare", anzi
l'astensione equivarrebbe a un NO detto due volte. Questo argomento tuttavia
prova troppo: per la Costituzione, come detto, il voto (qualsiasi voto) è
personale, libero e segreto e il suo esercizio costituisce un "dovere
civico". Senza ulteriori precisazioni non sembra difficile ammettere, come
fa del resto la Corte costituzionale (sent. n. 96/68), che questi principi
valgano per tutte le consultazioni, politiche e referendarie. In teoria
generale, anzi, le votazioni elettorali e quelle referendarie costituiscono
specie del genere delle deliberazioni collettive. Vale la pena di ricordare che
fin dalla Costituente si chiarì che non vi era contraddizione tra libertà e
doverosità nell'esercizio del diritto di voto. Voto libero è quello che si
svolge in assenza di coazione, come "libertà oggettiva dell'esercizio del
diritto di voto a vantaggio dell'elettore, per modo che gli organi dello Stato
siano impegnati ad assicurare questa libertà". Più difficile fu la
discussione intorno alla formula del "dovere civico", che alla fine
rappresentò una soluzione di compromesso, tra i fautori e gli avversari
dell'obbligatorietà del voto e della sua sanzionabilità. Mentre i partiti
moderati, tra cui soprattutto la Democrazia cristiana, erano favorevoli
all'introduzione del voto obbligatorio per spingere a votare i ceti medi e
conservatori, le forze politiche di sinistra sostenevano la libertà del voto
per ragioni esattamente opposte e, quindi, per avvantaggiarsi del consenso
delle masse operaie. Il compromesso costituzionale intorno alla formula
"dovere civico" venne chiarita da Meuccio Ruini quando, in sede di
votazione, riconobbe che la formula prescelta rappresentava "un primo
passo", che rinviava in futuro la scelta definitiva se introdurre anche
l'obbligatorietà del voto. Il dovere giuridico di votare veniva così sanzionato
nell'art. 115 del testo unico delle leggi per l'elezione della Camera: per chi
si asteneva era prevista la menzione "non ha votato" nel certificato
di buona condotta. La norma è stata abrogata nel 1993. Secondo alcuni così il
voto da dovere sarebbe diventato una piena libertà. Si tratta però di una
semplificazione. Non solo è vero che senza una formale modifica dell'art. 48
Cost. niente autorizza a ritenere abolita, insieme alla sanzione, pure la
doverosità del diritto di voto. Piuttosto, con quella modifica si è superato un
equivoco ricorrente: ritenere doveroso perché sanzionato solo il voto nelle
elezioni e non nei referendum. Votare nelle elezioni e nei referendum, invece,
era e resta un dovere costituzionale (Giorgio Lombardi). Solo che si tratta di
un dovere privo di qualsiasi sanzione (come una lex minus quam perfecta).
Astenersi dal voto è quindi un comportamento lecito. Ma non per questo
costituisce esercizio di un diritto costituzionale (come hanno ritenuto alcuni,
tra cui Barile-Cheli-Grassi nel manuale di Diritto pubblico). Si tratta di un
fatto pienamente lecito certo, ma giuridicamente irrilevante ai fini
dell'esercizio del diritto di voto. Concettualmente, infatti, nell'atto del
votare non rientra affatto il comportamento di chi si astiene dal voto. Vota
infatti solo chi si reca alle urne, e qui le possibilità sono solo tre: votare
SI, votare NO, astenersi nel voto (consegnando scheda bianca). Chi non si reca
alle urne non vota, né tantomeno vuole esprimere una volontà contraria (o addirittura
un "NO rafforzato): il non voto è solo un voto inesistente. Così si
svolgono le votazioni in Parlamento, e il diritto parlamentare non prevede
affatto l'uscita dall'aula (l'astensione dal voto) come una forma di decisione.
L'assenteismo parlamentare, come quello elettorale, rappresentano semmai forme
di ostruzionismo. Si tratta certamente di un comportamenti leciti, ma con ciò
non si può dire che chi sia assente sta esercitando una libertà implicita nel
diritto di voto. Scambiare queste due situazioni contraddice il principio che
assiste le deliberazioni elettorali, secondo il quale la volontà della
maggioranza deve formarsi nel collegio, ossia nel procedimento deliberativo e
non al di fuori di esso. Assente è colui che ha deciso di non partecipare al
processo decisionale. Cosa diversa, ma non per questo meno rilevante, è
valutare quando l'astensionismo (anche in funzione ostruzionistica) diventa una
pratica aliena, se non addirittura contraria, alla dialettica parlamentare,
come nel caso di una minoranza organizzata che con la propria reiterata assenza
impedisce alla maggioranza di assumere qualsiasi decisione e al Parlamento di
svolgere la sua funzione politica (Manzella). Contro lo scambio tra astensione
dal voto e diritto di voto nella triplice accezione vista è pure la
giurisprudenza: ciò si desume chiaramente in alcune recentissime decisioni
della Corte costituzionale, sia quando afferma che "in presenza della
prescrizione dello stesso art. 48, secondo cui l'esercizio del diritto di voto "è
dovere civico", il non partecipare alla votazione costituisce una forma di
esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico"
(sent. n. 173 del 2005), sia quando ritiene legittime norme dirette a
incentivare la partecipazione elettorale nei referendum come antidoto al
dilagare dell'astensionismo elettorale (sent. n. 372 del 2004, sullo statuto
della regione Toscana che commisura il quorum non sugli iscritti nelle liste
elettorali ma sulla percentuale dei votanti alle ultime elezioni). Astensione
tra quorum e legislazione. Si argomenta, però, che l'astensione sarebbe un
diritto perché legittimamente ammessa dalla norma (art. 75 Cost.) sul quorum
strutturale nel referendum abrogativo (Bettinelli, Iacometti, Lanchester e
altri): la soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto come presupposto
della validità del voto referendario si giustificherebbe proprio perché si
vuole così ammettere la libertà di non votare. Per smontare questo ragionamento
sarebbe sufficiente notare che ove il quorum non ci fosse, come nel caso del
referendum costituzionale o di referendum consultivi che non prevedono quorum
strutturale (basti pensare al referendum siciliano appena votato sulla soglia
di sbarramento del 5%, come ricorda Silvestri su il manifesto) sarebbe per ciò
solo illegittima qualsiasi astensione dal voto e, quindi, necessariamente
obbligatorio recarsi alle urne. L'assurdità di una simile conclusione dimostra
facilmente la debolezza della premessa. Anche in questo caso è utile ritornare
al dibattito della Costituente. Nella Costituzione repubblicana il quorum per i
soli referendum abrogativi venne stabilito per una ragione diversa e specifica
(collegata alla scelta di ammettere il referendum solo a certe condizioni e
solo sotto determinate condizioni). Si voleva evitare che una piccola minoranza
potesse abrogare una legge votata dalla maggioranza dei cittadini rappresentati
in Parlamento. Di fronte a una legge, approvata dalla maggioranza politica,
l'abrogazione popolare poteva essere consentita solo se a votare fosse andata
una maggioranza uguale e contraria. Il quorum, dunque, non per legittimare
l'astensione ma deliberatamente per contrastarla. Le motivazioni dei Padri
costituenti sono state sostanzialmente recepite in sede di discussione e
approvazione della legge sui referendum (legge n. 352 del 1970, cfr.
l'intervento del Ministro Gava in sede di discussione del progetto). La
disciplina legislativa, infatti, non contempla l'astensione, neppure come
variante nel voto referendario. Gli artt. 37 e 38 stabiliscono solo gli effetti
conseguenti alla vittoria dei SI (l'abrogazione della legge) o dei NO (il
divieto di reiterazione dei referendum nei cinque anni successivi). Una
conferma è nel fatto che fu respinto un emendamento volto a equiparare il "non
voto" al "voto contrario" all'abrogazione. In questo senso del
resto è anche il diritto vivente. In occasione della reiterazione nel 2000 del
referendum contro la quota proporzionale della legge elettorale della Camera
che l'anno precedente non aveva raggiunto il quorum, la dottrina prevalente
(vedi i pareri pro veritate di Barbera, Caianiello, Corasaniti e dello stesso
Baldassarre) e, quel che più conta, l'Ufficio centrale per il referendum e la
Corte costituzionale hanno ritenuto legittima la riproposizione del quesito,
smentendo apertamente l'equiparazione tra "astensione dal voto" e
"voto contrario" all'abrogazione (cfr., rispettivamente, ord. 7
dicembre 1999 e sent. n. 33/2000). L'irrilevanza giuridica dell'astensione dal
voto è dimostrata anche dalla disciplina della propaganda referendaria. La
legge n. 28 del 2000, infatti, ha stabilito che nella comunicazione
radiotelevisiva per i referendum abrogativi gli spazi siano "ripartiti in
misura eguale fra i favorevoli e i contrari al quesito referendario" (art.
3, comma 2, lett. d), escludendo qualsiasi valore alla posizione di chi invita
a disertare le urne. Proprio in questi giorni, correttamente, l'Authority per
le Telecomunicazioni ha previsto che nella campagna elettorale sulla
procreazione assistita le posizioni da tenere presenti nella ripartizione degli
spazi siano solo quelle dei sostenitori del SI e del NO. Del tutto fuorviante è
poi l'idea che l'astensione costituisce un legittimo espediente nel referendum
abrogativo perché così si può contrastare un'iniziativa che, a differenza delle
elezioni, non interessa la generalità dei consociati, ma viene sollecitata da
una minoranza di cittadini. Anche qui si scambiano i piani. Proprio per evitare
che il corpo elettorale venga coinvolto su temi di parte o in contrasto con
valori costituzionali è stato previsto il procedimento di controllo delle
richieste referendarie. Dopo il via libera dell'Ufficio centrale e della Corte
costituzionale, però, la richiesta di referendum abrogativo diviene pienamente
legittima, e per questo meritevole di essere sottoposta al giudizio del popolo,
il quale attraverso il voto, la partecipazione nel voto, potrà esprimere
(secondo le tre possibilità SI, NO, astensione nel voto), la propria volontà
nel merito della domanda referendaria. Astensione e libertà di propaganda. Un
discorso in parte diverso merita, inoltre, la valutazione del comportamento di
chi fa propaganda per l'astensione. Da parte di alcuni si ritiene che, come
qualsiasi forma di propaganda, anche l'invito a disertare le urne, sia
pienamente legittimo, rientrando nella più ampia libertà di manifestazione del
pensiero garantita dall'art. 21 della Costituzione. Si tratta di una tesi
corretta. Del resto l'ampiezza della libertà di pensiero è tale da
ricomprendere addirittura la legittimità della propaganda per valori contrari a
quelli previsti dalla Carta fondamentale, in conformità all'idea di una
democrazia aperta che, a differenza delle democrazie protette, ammette anche
idee antisistema. Anche in questo caso è però necessario non fermarsi sulla
superficie del fenomeno, ma provare a distinguere. La libertà di manifestazione
del pensiero non è, anche nel nostro ordinamento, priva di limiti. Un conto è
infatti la libertà delle idee (che possono anche essere eversive dell'ordine
costituzionale), un conto le idee che si traducono in azioni destinate a
incidere sull'esercizio di diritti costituzionali o addirittura a sovvertire
l'ordinamento costituzionale. Un conto è allora la propaganda per
l'astensionismo come manifestazione di opinione, altro conto è la propaganda
che si risolve in un'azione organizzata volontariamente per coartare il libero
convincimento dell'elettore. Del resto, come si è visto, la Costituzione (art.
48) esige che il voto sia libero, ossia privo di costrizioni o di forme di
coazione della volontà del cittadino elettore. E la Corte costituzionale è
molto rigorosa nel chiedere il rispetto di quel principio, ritenuto un valore
fondante dei processi di decisione popolare e delle regole per la propaganda
elettorale e referendaria (sentt. nn. 344/1993, 49/1998 e 502/2000).
Organizzare la diserzione dalle urne, al limite, può risolversi in una forma
surrettizia di controllo sociale della partecipazione al voto, con conseguenze
anche sull'effettività del principio di segretezza del voto. L'invito a
disertare le urne, ancorché riconducibile nell'ambito della libertà di
propaganda, meriterebbe di essere differentemente apprezzato anche in ragione
dei soggetti che lo manifestano. Altro è l'appello al non voto fatto da un
comune cittadino, altro l'invito a disertare i seggi svolto da chi è titolare
di cariche pubbliche. Con riferimento a questi ultimi non sarebbe così astruso
costituzionalmente ipotizzare un dovere di correttezza costituzionale che
impone loro di rispettare le regole democratiche e i diritti dei cittadini. La
Costituzione del resto prescrive per i partiti e, quindi, anche per i titolari
degli organi costituzionali di partecipare alla vita politica con "metodo
democratico" (art. 49), così come per i funzionari pubblici è previsto un
agire imparziale e responsabile (art. 28). Questo significa che la libertà di
opinione, che è parte della libertà dell'agire politico di coloro che hanno
responsabilità istituzionali (come il Presidente della Repubblica, i Presidenti
delle Camere, il Presidente del Consiglio, i Ministri, ecc.), trova un limite
più stringente che non nei confronti del comune cittadino proprio nell'esigenza
di rispettare le leggi e le regole della dialettica democratica. Nei referendum
sulla procreazione sono gli stessi parlamentari che hanno votato la legge che,
invitando a disertare le urne, vogliono sottrarsi al confronto popolare,
anziché dimostrare democraticamente di essere in sintonia con la maggioranza
degli elettori. I valori in gioco e il pluralismo democratico. Un ultimo
profilo. Vi è chi dice (come alcuni esponenti della Curia) che il 12-13 giugno
non si deve votare perché sono in gioco valori - quelli che circondano il
concetto di persona umana - universali e perciò non negoziabili. Si tratta di
una critica sottile. E' vero che in un sistema democratico vi sono valori che
non ammettono in linea di principio decisioni a maggioranza. Ma il fatto è che
nel caso dei referendum sulla procreazione assistita manca proprio quella
condivisione generalizzata che costituisce il presupposto per considerare
l'embrione una persona umana. Del resto se si trattasse di un valore indiscusso
non si capirebbe perché la legge 40 è stata approvata solo da una parte
politica e ora, addirittura, disconosciuta da alcuni di coloro che l'avevano
votata. In realtà, uno dei principi fondamentali del costituzionalismo
liberaldemocratico prescrive che quando sono in gioco valori altamente
controversi ciò che il processo decisionale deve veramente assicurare è il
rispetto del pluralismo delle opinioni. In simili casi, dunque, il problema non
è se sia legittimo o meno decidere a maggioranza, ma garantire che le decisioni
siano assunte con il consenso più ampio possibile e, comunque, nel rispetto dei
diritti di chi resta in minoranza.
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